FELIX AUSTRIA, SCHONBRUNN SI TRASFERISCE PER UN GIORNO SULLE RIVE DEL PO.


Abbracciare con lo sguardo il piano di lavoro sul quale sono stati ordinati i mate- riali della collezione Fattovich procura un’emozione intensa. Qua la magnificenza dei collari, là le sciarpe da collo con i loro pendagli, le spille baluginanti, le croci, le placche, le insegne, i distintivi, le medaglie di ogni possibile dimensione e me- tallo: un trionfale caleidoscopio di colori nei quali prevalgono il bianco e il rosso d’Austria, il giallo e il nero degli Asburgo, mentre da lontano risplende l’arcipelago luminoso delle medaglie in oro. 

giovanni Fattovich (1901-1986), clinico di chiara fama e direttore dell’ospedale psi- chiatrico di Venezia, era nato a zara, la capitale del regno di dalmazia, ammini- strativamente inserito nella parte austriaca dell’Impero Austro-Ungarico. da quella provenienza era evidentemente nata la passione per i cimeli asburgici e in partico- lare per quelli ottocenteschi, in quanto zara, dopo secoli di dominazione veneziana e dopo la parentesi napoleonica, era entrata nel grande mare austroungarico solo all’inizio del Secolo XIX. Fra i cimeli asburgici il suo interesse si indirizzò in partico- lare sugli ordini, sulle decorazioni e sulle medaglie, oggetti che, come le monete, possono essere collezionati in spazi ridotti, ma che consentono di cogliere anco- ra meglio l’essenza e il carattere di un’epoca, perché prodotti senza costringere la fantasia dei loro creatori a rispettare precisi vincoli dimensionali, ma anzi eccitandola proprio per l’utilizzazione non commerciale cui erano destinati. 

Di Carlo Barzan
Scorrendo la letteratura specialistica in argomen- to, che non può non essere corredata da un am- pio apparato fotografico, si ricava la sensazione di percorrere la storia per lampi di immagine, senza che sia necessario leggere il testo: la trasforma- zione degli ordini cavallereschi medioevali a base religiosa, nati con le Crociate, in strumenti profani di legittimazione reciproca delle dinastie regnanti e dell’alta aristocrazia, nei quali gli aspetti religiosi vengono relegati a un ruolo puramente funzionale all’esercizio del potere temporale, rende percepi- bile il tramonto del Medioevo con un solo sguar- do. Analogamente l’apparire degli ordini al merito civile, specchio della graduale democratizzazione della società che avrebbe subito una brusca acce- lerazione con la rivoluzione francese, testimonia il trasferimento del razionalismo e dell’empirismo dall’ambito epistemologico a quello gnoseologico più generale, meglio di qualunque trattato sul se- colo dei lumi. E infine, per rientrare nel tema della collezione Fattovich, la sfavillante galleria di og- getti che costituiscono il corpus degli ordini, delle decorazioni e delle medaglie asburgiche consente di percepire a colpo d’occhio il posto che la monar- chia danubiana occupava nella Mitteleuropa. per farne concreta esperienza, è sufficiente sfogliare il ponderoso volume in argomento redatto da Václav Mericka, studioso e collezionista boemo attivo nel- la seconda metà del Secolo XX, e dedicato, non a caso, a giovanni Fattovich, alla cui collezione, oltre che alla propria, lo studioso attinse a piene mani per le splendide illustrazioni che lo impreziosiscono. 
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Fra i materiali presentati da Mericka nel suo vo-
lume e che saranno posti in vendita nella pros- sima asta bolaffi di inizio giugno, abbiamo scel- to quattro oggetti. per quanto riguarda l’Ordine del Toson d’oro, il più prestigioso e antico fra gli ordini austroungarici, è presente una serie di tre decorazioni da collo con nastro, destinate all’uso quotidiano, una delle quali qui illustrata, in oro con smalti e pietre dure. L’Ordine di santo stefano,
fondato da Maria Teresa nel 1764 e destinato a dare adeguato risalto al regno d’Un- gheria come parte dei domini asburgici, è rappresentato da un magnifico collare in argento dorato e smalti, da indossare nelle solennità; il collare è costituito da 24 co- rone di Santo Stefano, fra loro collegate, alternativamente, dalle lettere SS (iniziali di Santo Stefano) e MT (iniziali di Maria Teresa), oltre a una ulteriore corona che, insieme alla croce sottostante, forma il pendaglio. di non minore effetto scenogra- fico è il collare dell’Ordine della Corona di Ferro, fondato da Napoleone nel 1805 poco dopo la sua incoronazione come re d’Italia e, per così dire, ereditato dagli Asburgo che gli diedero nuovi statuti nel 1816, dopo l’incoronazione di Francesco I come re del Lombardo-Veneto. Si tratta in questo caso di un oggetto di interesse particolare per l’Italia, dal momento che il suo simbolo, la Corona Ferrea, era la corona dei re Longobardi ed è tuttora conservata nel duomo di Monza. Il collare si compone di dodici corone di quercia, collegate l’una all’altra dal monogramma Fp in corsivo (iniziali di Franciscus primus), ciascuno a sua volta collegato alla riprodu- zione di una Corona Ferrea di piccole dimensioni, e di un pendaglio con le insegne dell’ordine. Questa brevissima anteprima si conclude con una medaglia in oro che, per epoca, soggetto e dimensioni, non è certo fra le più importanti, ma presenta due aspetti che esprimono e riassumono il senso e il significato della collezione. Il primo consiste nel fatto di riportare al diritto l’effigie di Francesco giuseppe, il sovrano che dominò la scena del tramonto dell’Impero anche con le sue tragedie famigliari, l’assassinio della moglie Elisabetta - l’indimenticabile principessa Sissi di una fortunata serie cinematografica - e la tragedia di Mayerling con la morte del figlio rodolfo, erede al trono, avvenuta in un clima che alimentò ogni tipo di sospetto rispetto alla versione ufficiale del suicidio. Il secondo aspetto è fornito dal rovescio, molto semplice, ma nel quale, fra due rami di alloro e di quercia, compaiono la corona di Santo Stefano e il motto imperiale di Francesco giuseppe: “Viribus Unitis”, “con le forze unite”, o meglio “l’unione fa la forza” da lui scelto al momento della sua ascesa al trono, avvenuta nel 1848 a seguito degli eventi rivoluzionari di quell’anno. Essa esprimeva con l'ingenuo ardore di un diciottenne, il proposito del giovane Imperatore di traghettare nel ventesimo secolo uno Stato sostanzialmente ancora feudale, riuscendo a convincere i suoi cittadini che nell'unità fra diversi, tutti avevano qual- cosa da guadagnare, obiettivo che lo avrebbe accompagnato per i 68 anni del suo lunghissimo regno. 

La vendita si annuncia come un grande evento per gli appassionati e i cultori di ordini e decorazioni, cioè della faleristica - per usare un neologismo relativamen- te recente - che nel corso degli ultimi decenni ha perso il suo carattere ancillare per assumere un rapporto autonomo e parallelo con la numismatica. Ma non solo, l’interesse uscirà dall’ambito specialistico, necessariamente ristretto. Non esisto- no infatti epoca storica e ambito geografico che sollecitino la nostalgia quanto l’Austria-Ungheria di fine ottocento, un territorio sterminato, dal lago di Costanza alla remota bukovina e dai contrafforti montuosi della valle dell’Elba alla costa dal- mata, un coacervo di etnie e religioni le più disparate e un’amministrazione bicefala, Imperiale (per l’Austria) e regia (per l’Ungheria), che operava utilizzando 11 lingue ufficiali, tra le quali, e non poteva che essere così, anche l’italiano. Il clima entro il quale si è consumato il tramonto di questo Impero, colto e cosmopolita, è stato oggetto di una letteratura del rimpianto, quasi un genere letterario specifico: da Musil a Stephan zweig, allo stesso kafka, molti scrittori hanno fatto di quel clima il filo conduttore della loro attività letteraria, spesso mascherandolo sotto una patina di sferzante ironia. Il grande cantore della finis austriae fu però Joseph roth. di lui, a titolo di esempio, vogliamo ricordare una frase, messa in bocca ad un aristocratico galiziano protagonista di un suo racconto: finita la grande guerra e disintegratosi l’impero, questo personaggio si ritrova cittadino polacco e scopre, fra tante altre cose, di aver bisogno di un passaporto per viaggiare nella Mitteleuropa. Si ritira allora a scrivere le sue memorie in riviera e così racconta: “la mia vecchia patria, la monarchia sola era una grande casa con molte porte e molte stanze per molte specie di uomini. la casa è stata suddivisa, spaccata, frantumata. là io non ho più nulla da cercare. io sono abituato a vivere in una casa, non in una cabina.” Sono pa- role di grande attualità: nel ventesimo secolo abbiamo sperimentato a quale livello di follia possono portarci le cabine chiuse dei fondamentalismi identitari e anche il ventunesimo, da questo punto di vista, non si presenta sotto i migliori auspici. dunque, “serbi dio l’austriaco regno...”